La meraviglia e poi lo sdegno
IV domenica del Tempo Ordinario (C)
(Ger 1,4-5.17-19 / Sal 70 / 1Cor 12,31-13,13 / Lc 4,21-30)
Anch’io ne ho vista di gente entusiasmarsi all’annuncio del Vangelo. Sembravano riprendere fiato. Tutti. Improvvisamente li vedevi danzare liberi dalle paure, uscire di chiesa pieni di gioia, come se le loro spalle fossero state liberate da un peso, dimenticata ogni fatica della settimana, come se del loro dolore o di un loro pensiero negativo ne avessero già visto la fine. E così si sentivano rassicurati nel loro credere.
È come una carezza data al gatto nel verso del pelo. Ci illudiamo tuttavia quando crediamo che amore sia soltanto questo: una carezza di conferma a quello che volevamo vedere, sapere o sentirci dire; un cenno di conferma a quanto crediamo di credere. Così anche il celebre inno alla carità (seconda lettura di questa domenica) che porta la firma di Paolo, l’apostolo raffigurato con la spada tra le mani, è diventato una sdolcinata filastrocca da leggersi il più delle volte durante le liturgia matrimoniali e nessuno sogna più di riprendere in mano quelle parole quando l’amore punge, l’amore corregge, l’amore scuote, l’amore scomoda… l’amore tradisce. E se la parola amore è ambigua metteteci pure la parola carità, che è l’altro nome di Dio e non quelle briciole lasciate cadere da quelle tavole dove i poveri non siederanno mai perché, in fondo, è bene pure sapere che siamo noi a poterla fare quella carità…. e i poveri ci servono per esercitarci. Ma il Vangelo non può – secondo i nostri pensieri – chiederci di vedere il Cristo prima nei poveri, negli stranieri.
E se per caso, una qualche volta, si provasse a far comprendere che quella Buona Notizia (Evangelo) è per tutti e non è proprietà esclusiva di alcuni – Gesù non era venuto solo per i suoi – allora spesso sono gli animi devoti ad inasprirsi, ad indignarsi. Finché il Vangelo ha la delicatezza di un segno non può che attirarci e perfino interessarci ma quando, penetrando nelle giunture, i segni lasciano il posto alla Parola ed essa incide dove il corpo si articola, si snoda, si muove, ecco che i nervi subito si infiammano e la pelle si irrita. È allora che il Vangelo brucia, come il fuoco che Gesù stesso dice d’esser venuto a portare sulla terra; brucia come un farmaco che disinfetta quelle ferite che l’umanità s’è procurata irrigidendosi. Ma è proprio quando si perde elasticità e ci irrigidisce in schemi (anche religiosi) che poi si finisce per cadere come dei bambini che si sbucciano le ginocchia.
Potremmo pure meditare sull’orazione di colletta che la liturgia di oggi propone in alternativa a quella di sempre, sperando che siano in molti a pregarla perché come spesso accade per queste preghiere proclamate all’inizio dell’Eucarestia domenicale, danno la tonalità di un impegno che chiede sempre e anzitutto l’aiuto dall’alto. E oggi – che cosa umanissima! – chiediamo di non arrossire, di non vergognarci, nell’annunciare, vivere e testimoniare il Vangelo. L’inimicizia del mondo ci attenderà non fuori dalla patria ma proprio tra la gente in mezzo alla quale si stava soltanto cercando di far sentire il vento dello Spirito che soffia dove vuole e dove vuole si muove. C’è poco da scandalizzarsi se improvvisamente, coloro che erano nella sinagoga e si dicevano meravigliati d’avere un compaesano come Gesù, finiscono per riempirsi di sdegno al punto da volerlo eliminare. E un segno lo fece proprio in quel giorno e nella sua patria: uscì dalla sinagoga e si mise in cammino.
Signore Dio nostro,
che hai ispirato i profeti
perché annunciassero senza timore
la tua parola di giustizia,
fa’ che i credenti in te non arrossiscano del Vangelo,
ma lo annuncino con coraggio
senza temere l’inimicizia del mondo.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
(orazione di colletta dalla liturgia odierna)
Dal Vangelo secondo Luca (4,21-30)
In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
Stai calmo.
Ti può accadere qualcosa
di terribile solo se pensi
alla vita come una cosa sicura.
Pensa, invece, che sei finito
per caso in mezzo ai respiri del mondo.
L’insidia dell’ansia è farti
pensare che forse stai morendo,
ma questo è il male di chi si crede vivo,
di chi non sa pensarsi
come un filo d’erba,
una nevicata, un soffio di vento.
Non so quando abbiamo
cominciato la sinfonia della presunzione,
la pretesa di essere e di avere.
Non è questo il nostro mestiere.
Aspetta il giorno
assieme ai muri, ai ragni.
Se resti vivo per altri due secondi,
lasciane uno per te e un altro
per il mondo.
(Franco Arminio, Studi sull’amore, Einaudi, 2022)
Quanto è vera l’orazione di colletta odierna. Abbiamo vergogna ad annunciare il Vangelo ma molto di più a renderlo concreto nella nostra vita.
Ho la sensazione che siamo bravi ad andare a trovare Gesù in chiesa ma poi lo lasciamo là, manca il coraggio di portarlo fuori con noi, perché ci aiuti a rendere visibile l’azione della carità.
Ho di che riflettere sulle parole del commento di oggi, mi hanno un po’ scosso.
“La fatica della carità” (che è anche un bel libro scritto da Luciano Manicardi, già priore di Bose) questa frase dà l’idea del fatto che ogni giorno ci dobbiamo interrogare sul nostro concetto di carità e chiedere allo Spirito che ci insegni a portare nella nostra vita il messaggio del Vangelo.
“Signore…. fa che i credenti in Te non arrossiscano del Vangelo…”
“Non si può dire tutta la verità; e tantomeno viverla. Perché se dici tutta la verità, il minimo che ti capita è di essere giudicato folle; e se non la dici, è certo che non sei creduto. Così ogni giorno torno a casa sconfitto.
Eppure non mi resta che pregare. E pregare in ogni tempo.”
David Maria Turoldo
Credo davvero che non ci potesse essere accompagnamento migliore di questa poesia di Arminio per il brano di Vangelo di oggi.
Quanto contrasto tra l’umanissima “sinfonia della presunzione” ed il passare in mezzo di Gesù. Quanta differenza tra l’accettare di passare attraverso le sofferenze e cercare disperatamente di opporvisi. Ad accettarle, lasciare che ci siano e facciano il loro corso, si permette al contempo alle sofferenze di segnarci, sí, ma anche di insegnarci. Opponendoci invece, oltre ad acuire la fatica che la sofferenza implica, chiudiamo le orecchie agli insegnamenti che porta, così che oltreché dolorosa l’esperienza fatta ne risulterà sterile. Molto meglio viverlo il dolore, lasciarsi attraversare, modificare, provare , dal dolore. I frutti che porterà non è affatto detto che siano immediati, e nemmeno necessariamente “gustosi”… Ma sono quasi sempre più ricchi di quanto non si osi sperare e talvolta sono capaci di regalare illuminazioni insperate. Provare per credere!
Caro don Stefano, GRAZIE. Le tue parole e quelle del Vangelo penetrano profondamente nella carne e fanno male, perché toccano le nostre piaghe imputridite dalla “vergogna” del Vangelo. Oh sì, facciamo la carità e ci laviamo la coscienza, ma quando il povero all’angolo della stada ci chiede quella stessa carità ci voltiamo dall’altra parte. MI volto dall’altra parte. Oggi pregherò perché questa mia “timidezza” quando chi ho vicino mi vede, sparisca ed io abbia il coraggio di aprire mani e soprattutto cuore a quelli che incontro