Un pezzo di pane… da commuoversi!

XVII domenica del Tempo Ordinario (B)

(2Re 4,42-44 / Sal 144 / Ef 4,1-6 / Gv 6,1-15)

Il gran lamento del popolo di Dio, ai tempi dell’Esodo, era legato alla fame e alla sete. Chiesero a Mosè se li avesse portati in quel luogo per morire. Ebbero paura di morire. Di fame. Il lamento arrivò al cielo e dal cielo provvidenzialmente piovve del cibo simile al pane. E si chiedevano cosa potesse mai essere quel pane che non s’erano guadagnati col sudore della loro fronte.

Il fatto è che prima di imparare a procurarci il cibo con le nostre mani, prima di qualsiasi lavoro che da grandi potremmo svolgere, noi disponiamo di cibo che altri ci donano e ci procurano: dal latte materno in poi. E chissà se succhiando il latte ne assaporiamo il senso profondo e beviamo come ad una sorgente che distilla fiducia, fede.

Ci nutriamo, il più delle volte, di questa delirante idea che si possa mangiare il proprio pane solo quando è frutto del proprio lavoro. Onesto o disonesto che sia. Ma il cibo è come amore che sempre ci precede. E quando un uomo ti viene incontro offrendoti del pane,  potrà anche essere un uomo di cui conosci nulla, ma proprio attraverso quel dono ne intuisci il buon cuore, la generosità. In quei giorni – dice la prima lettura – da Baal Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia.

Ma per quanto quell’uomo (o qualsiasi altro uomo) possa essere generoso, anche sulla sua bocca fiorirà la domanda: Come posso mettere questo davanti a cento persone? La fame dell’uomo come si può saziare? E di cosa ha fame l’uomo di tutti i tempi? Quello che chiami «tuo pane», perché frutto del tuo lavoro, nemmeno se intendessi farlo diventare generosamente «pane nostro» potrebbe bastare a sfamare. È qui che nasce la domanda che ci sproporziona. E il cuore si inquieta.

I popoli si agitano, i poveri che ne hanno la forza alzano la voce. O forse, più semplicemente, senza troppo clamore si mettono in cerca di pane. Siamo ancora lontani dal rubarci il pane di bocca o forse lo abbiamo già rubato senza neppure saperlo per questa ingordigia di mangiare sempre più, oltre la sufficienza e la sazietà. E il cibo sembra solo legna da ardere per caldaie a vapore, per motori che devono bruciare energia al fine di produrre maggiormente. I paesi del nord vivono di queste convinzioni malsane… poi, ti basta andare in vacanza un poco più a sud di dove ti trovi, per scoprire, con non poco stupore, una generosità che supera ampiamente quella ricchezza troppo ostentata e fiera. 

Il pane non può solo parlare dell’uomo che lo produce. Il pane potrebbe dire molto di più all’uomo e dell’uomo. Potrebbe raccontare la comunione, la capacità di condividere anche quel poco che comunque siamo per farne avanzare, pensando a chi verrà dopo di noi.

Era vicina la Pasqua dei Giudei, la grande festa che ricorda il prodigioso intervento di Dio nella storia di un popolo oppresso e affamato. La Pasqua: il giorno in cui realizzi che non sei più schiavo ma libero; il giorno in cui non mangi un pane frutto di sudore ma impari a stare seduto a tavola mentre un Altro ti serve. Pasqua sempre vissuta e celebrata nel tempo degli uomini, nei giorni che si consumano, in mezzo a uomini che provano la fame e altri che, troppo sazi, non sanno nemmeno più di cosa veramente valga la pena nutrirsi. 

Fateli sedere, disse. Invitateli a mettersi nella postura di chi fa nulla. E quel far nulla è molto problematico per chi è abituato a lavorare. Fateli sedere, disse. Nella postura di chi dopo aver camminato a lungo, può finalmente sostare e trovare riposo. E per la fame di tutta quella gente? Egli sapeva. Sapeva che avrebbero avuto fame e sapeva cosa significa aver fame. L’aveva già provata nei giorni del suo deserto. Nei giorni trascorsi nel deserto, s’era già posto la domanda che ora rivolge ad uno dei suoi discepoli: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Nemmeno disponendo di somme ingenti puoi estinguere la fame dell’uomo perché la fame parla proprio di qualcosa che non sazi col denaro. 

«Venite a me! – sembrava dire – Vi insegnerò la comunione, vi insegnerò la condivisione, vi insegnerò il dono. Vi parlerò del Padre mio e improvvisamente lo scoprirete Padre nostro». Il cuore si spaura, gli occhi si riempiono di quelle ultime lacrime ben diverse da quelle che piangevi per la fame, di quando, prepotenti, strillavamo. Dopo gli strilli capricciosi di bambini che sembrano leoni affamati, ritorna il silenzio, la quiete e quei due lacrimoni che scendono infine, sanno di consolazione. Non piangi più perchè  hai fame ma ti commuovi nel vedere che tutti hanno mangiato quel pane e si sono saziati. Così potrebbe essere. Così succede a volte. Anche durante l’Eucarestia, nella nostra Pasqua settimanale. C’è da commuoversi quando vedi quella gente che mangia e riceve nella pace un pezzo di pane.

Giorni e giorni a correre per il pane. Giorni e giorni a difendere il proprio pane. E poi, un giorno su tutti, una piccola ora sulle ventiquattro del giorno, in cui assapori che c’è un altro modo di mangiare, di stare insieme, di vivere. Ho sempre trovato commuovente questa Pasqua della settimana. E non è un modo di dire. Mi hanno visto commuovermi e i bambini sono corsi da mamma e papà a chiedere: «Perché il don si commuove?». E io non so cosa possano aver risposto. Succede proprio così quando assapori com’è buono il Signore verso tutti. Almeno lì, in quella Pasqua. Almeno in quel momento in cui siamo seduti a far nulla rispetto al nostro agitarci frenetico di  tutti i giorni. 

E dopo aver dato da mangiare quel pane venuto dal cielo, che non ci siamo comprati col sudore della fronte, è bello pure raccogliere i pezzi avanzati e salire verso il tabernacolo. Quello è il segno che noi siamo stati saziati e ne è avanzato. Quel tabernacolo in ogni chiesa, solo al vederlo, dovrebbe farci tirare un sospiro di sollievo: sapere che li c’è una riserva, un pane di scorta che sta a ricordarci non tanto che dobbiamo fare provviste quanto piuttosto che altra gente ha fame. La matematica a scuola ci ha insegnato a fare di calcolo, e spesso, quando si facevano divisioni, c’era l’avanzo. Quel resto non si butta. Ogni volta che Gesù divideva il pane c’era sempre l’avanzo. 

Questo sarebbe il lieto fine… che, in un certo senso, continua comunque a meravigliarci in ogni Pasqua settimanale. E per questo ripetiamo quel gesto e noi siamo piuttosto duri a comprenderlo, stancandoci banalmente della sua ritualità perché non sappiamo ancora dare alla nostra vita quotidiana quella naturale ritualità che volge alla comunione. I nostri gesti di condivisione con i più poveri sono ancora troppo spesso eventi eccezionali, manifestazioni rare per giornate particolari; i nostri segni di comunione con i più poveri non sono ancora diventati la nostra quotidiana liturgia, la nostra quotidiana ritualità. E per questo non comprendiamo la ritualità del giorno di festa e, molti, la trovano soltanto noiosa. 

Prima del lieto fine c’è ancora un pericolo: per la folla e per Gesù stesso. Dovette andarsene perché aveva capito che lo avrebbero voluto loro re. Il consenso è subito guadagnato se doni gratuitamente. Sei subito il re di tutti ma questa cosa Gesù la sente davvero come una tentazione. Impegnato com’era per la liberazione dell’uomo, non avrebbe tollerato minimamente di sapere che uomini, donne e bambini stavano ai suoi piedi solo per interesse, per opportunismo, per convenienza: solo perché Lui sapeva dar da mangiare e accontentare tutti. È un grande pericolo anche per la folla pensare che un uomo, quasi magicamente, possa provvedere. Noi, così spesso in cerca di miracoli che ci risolvano un bel po’ di problemi, vediamo in questo segno del pane condiviso la via facile e Gesù sarebbe solo Colui che, trovato, risolve i problemi… e noi, sempre più in panciolle (ah… la messa in streaming quando stiamo benissimo e non siamo allettati per malattia!) stentiamo a comprendere che quello non era il miracolo della comodità ma il comandamento nuovo: come ho fatto io così fate anche voi. 

O Padre, che nella Pasqua domenicale
ci chiami a condividere il pane vivo disceso dal cielo,
aiutaci a spezzare nella carità di Cristo
anche il pane terreno,
perché sia saziata ogni fame del corpo e dello spirito.

(orazione all’inizio della liturgia eucaristica odierna)

Dal Vangelo secondo Giovanni (6,1-15)

In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Signore, è un’impresa l’unità di ogni uomo:
come faremo l’unità di tutti gli uomini,
l’unità del mondo?
Signore, forse creare è niente per te
quanto comporre in unità gli uomini:
anche per te è un’impresa
che sa sempre ricominci! […]

Signore, è questo il tuo sogno:
che tutti gli uomini abbiano
il cuore libero dalle cose,
e sia questo il fondamento
di ogni economia:
perché non esiste proprietà,
tutta la terra è di Dio,
e tutti gli uomini sono figli di Dio:
Signore, che la «roba» non ci divida più! […]

È la domanda che diventa sempre più tragica:
«Dove troveremo pane a sufficienza
per le folle affamate?»,
una domanda che ci metterà tutti alla prova,
E sarà sempre più difficile credere a Te,
mentre sarà più facile che sia creduto
il Grande Inquisitore,
anche se l’urlo di tutti gli affamati
comunque riempirà i cieli:
che almeno per noi, per la tua chiesa,
tu sia davvero Signore. 
Amen.

(David Maria Turoldo)

Chiesa di S. Maria di Nazaret a San Cataldo (diocesi di Caltanissetta)

Rimani aggiornato per ricevere i miei nuovi articoli




Piccoli Pensieri (1)

Forse Gesú, oltre ad allontanarsi per non essere fatto re, si allontana anche per indurre la gente a provare ad attivarsi autonomamente perché il miracolo si ripeta. In fin dei conti a essere generosi con gli altri poi è anche più facile che gli altri siano generosi con noi, ma anche con gli altri. La generosità è così bella che vien spontaneo poi diffonderla a nostra volta! Ma va allenata anche lei, esercitata con costanza e pazienza… Anche quando indietro torna la durezza del rifiuto o, peggio, della cattiveria che allora sí c’è il rischio che si fermi io suo bel circolo virtuoso. Perché? Per la delusione e la tristezza di vedersi un regalo rifiutato. È quello il momento per tornare a darlo, a maggior ragione, magari rivolgendosi altrove, verso un campo più fertile perché possa meglio germogliare e diffondersi.

25 Luglio 2021

Scrivi un commento a Arianna Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *