Quel chicco di grano responsabile della nostra vita

V domenica di Quaresima (B)

(Ger 31,31-34 / Sal 50 / Eb 5,7-9 / Gv 12,20-33)

Giudei emigrati in Grecia – se potevano – rientravano volentieri nella loro terra d’origine per la festa di Pasqua. Pur diretti al centro di Gerusalemme, più precisamente al Tempio, cuore della fede, sembrano aver intuito che vivere la fede è piuttosto questione di decentrarsi e dunque questione di relazione, di conoscenza… di cuore, quel famoso cuore di carne nel quale Dio avrebbe posto la sua Legge.

A poco serve dunque indurire il cuore per essere credenti tutti d’un pezzo. Dio non ha bisogno di un cuore di pietra per scolpirvi le sue parole. Servono un cuore di carne e sufficiente fede per credere che vivere è decentrarsi per fare dono di sé; vivere è essere attirati dall’Amore stesso, il quale Amore non attende d’essere amato, ma semplicemente ama. È forse questo il senso di quella nuova alleanza che Dio intenderà concludere con il suo popolo:

Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. […] Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. (Geremia 31,31-33)

Giunti a Gerusalemme, questi Giudei cercavano di vedere Gesù, dice il Vangelo. Non lo cercano genericamente tra la folla, ma chiedono a Filippo di Betsàida di Galilea, uno dei discepoli le cui origini sono appunto più legate alle periferie e non al centro. Cercano l’uomo la cui reputazione s’era ingigantita proprio passando da bocca a orecchio. Pare in effetti – dicono alcuni studi sociologici – che la testimonianza più incisiva è proprio quella che passa dal racconto orale, dalla narrazione che un testimone oculare può fare. E dunque questo potrebbe rimanere lo stile dell’annuncio evangelico, no? Non servono tecniche raffinate e moderni strumenti di comunicazione, basterebbero davvero labbra che confessano il nome del Signore con parole liete che sgorgano dal cuore (Salmo 45). 

La risposta di Gesù è sorprendente: è finalmente giunta l’ora che il Figlio dell’uomo sia «glorificato». Il termine forse è poco utilizzato nel nostro linguaggio, ma risuona ai nostri orecchi come successo, carriera, fama, celebrità. Nella disputa con i Giudei dopo aver guarito l’uomo afflitto da paralisi da trentotto anni, Gesù dirà: «E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» (Gv 5,44).

E per spiegarsi meglio ora Gesù inviterà a guardare a quanto accade ad un chicco di grano. La gloria di Dio sta tutta iscritta nella forza di un chicco di grano, in quel senso di responsabilità nascosto dentro un seme. Al cuore del chicco di grano è scritta la legge di Dio, il dono di sé, la vita che viene per mezzo della morte del chicco stesso. E quando contemplava la messe abbondante e chiedeva che pregassimo perché il Padre mandasse operai nella sua messe? Non si può davvero sprecare la vita quando questa è venuta in abbondanza dalla morte di un chicco di grano. Dal dono di sé non può che venire vita per altri, per chi verrà dopo di noi. E dunque la fede non è un rifugio per chi non sopporta più il mondo, perché non ha cuore per chi verrà dopo di sé. E se dunque al cuore del chicco di grano c’è questa capacità di dare la vita, questo senso di responsabilità per il bene altrui, perché non riscoprire che questa stessa gloria sta iscritta nel cuore dell’uomo? 

Quanto a me, per oggi mi fermo qui e lascio posto anche ad un’altra riflessione. Proprio ieri, sul far della sera, ricevo un messaggio: «Le letture di domani sono molto belle. Tutte e tre. Sempre che siano uguali da noi e da voi». Rispondo: «Dato che letture sono le medesime… scriveresti un commento per ottogiorni?». E il commento è arrivato stamattina e lo si condivide volentieri. 

Dal Vangelo secondo Giovanni
(12, 20-33)

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

È forse necessaria, per accostarsi alle letture della domenica, una dose, pur piccola, di purezza di cuore. Ecco perché credo di aver davvero ascoltato la parola di Dio solo quando l’ho ripensata, mentre stavo sdraiata in un campo di margherite. I fiori hanno una loro inacessibilità. Da tempo non mi concedevo di guardarli, perché non era puro il mio sguardo. Puro è una parola difficile da ridire: confina con ciò che si apre, ciò che è primigenio, ciò che è limpido, ciò che fatto di una sola sostanza. Le margherite aiutano a recuperare questa condizione che sa di beatitudine.

Tre aspetti delle Letture di questa domenica mi hanno regalato una grande gioia, che provo a condividere.

Nel Vangelo, di fronte alla richiesta imperativa, vogliamo vedere, di alcuni greci che pretendono di essere presentati, Gesù risponde indirettamente a Filippo e Andrea, con parole note: Chi ama la propria vita la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol seguire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Gesù non si alza per raggiungerli e dire loro: ‘ecco sono io’. Cosa c’è di sbagliato in questo modo di interrogare, tanto da tenere Gesù lontano? Questi uomini intendono, probabilmente, verificare l’attendibilità di Gesù per valutare se seguirlo. Il tipo di sete che li spinge ha qualcosa di inadatto, di radicalmente inappropriato. Non è vera sete. É la sete zoppa di chi vuole accaparrarsi la salvezza dalla morte o qualsiasi altra forma di salvezza personale. Allora Gesù si ferma e spiega piano (non sono parole simili a quelle dette al giovane ricco?) partendo proprio dalla sua di morte che avverrà: se amare la propria vita, significa essere preoccupati per se stessi, ovvero tentare di salvarsi, non va bene. Gesù non salva da questa morte. Non è un salvatore per chi lo cerca con questo cuore. Mi piace tantissimo la franchezza di quest’uomo che non fa proseliti, che allontana e mette in guardia chi non è pronto. Non per sempre: solo fino a quando lo diventerà. La risposta non è un rifiuto, però è un violento invito a muoversi e a mettersi in cammino per cercare il significato di parole che volontariamente contraddicono e forzano il senso comune: chi vuole salvare la propria vita, la perde. Amare la vita significa spenderla per il bene e aver deciso che quel bene varrà sempre la pena, comunque vada a finire. Beati i giusti, beati i misericordiosi, beati gli operatori di pace e di giustizia, beati coloro che stanno già camminando sulla via dell’amore: coloro che già si spendono e si perdono, otterranno. Chi ha davvero sete e non ha nulla di più caro che il desiderio di vivere pienamente ora e qui, è in grado di lasciare tutto e di seguirlo: costui è in comunione con Lui. Il Dio di Gesù invita ad alzarsi, a mettersi in cammino, a cercarlo, a vedere dove è: in cambio offre la Sua Presenza. La sua Presenza, il suo Essere a fianco nella vita quotidiana, è la Salvezza. Non ha nulla a che fare con il liberare dalla morte: è il suo esserci, in risposta al nostro desiderio profondo di stare con Lui, a portare la vita nuova. Gesù chiede fiducia, ma non una fiducia cieca: la chiede a coloro che possono vederlo, sentire la sua voce, e seguirlo nella storia. Oggi chiede la stessa fiducia a noi: per decidere abbiamo il Vangelo e abbiamo attorno a noi persone che vivono di Lui: essi riaccendono la sete buona. Solo allora riabbracciamo noi stessi:  e scopriamo il nostro corpo e il nostro cuore da mettere sulla sua strada.

La seconda lettura mostra un Gesù bellissimo, così profondamente incarnato, nel suo rivolgere forti grida e lacrime a Dio, che poteva salvarlo dalla morte. E’ la voce di Giobbe. E’ la voce di ogni uomo che chiede di non morire e di non essere messo alla prova. E’ la mia voce, che piange e prega affinché finisca ogni morire. La piena esperienza umana dell’abbandono di Dio, non coincide con l’abbandono di Dio: proprio a quest’ora, Dio glorifica: ma Gesù stesso non lo sa e deve attraversare questa parte di vita con la sua umanità: muore nell’angoscia di essere abbandonato da Dio, avendo mantenuta viva la sua fiducia in Dio. Non è una morte serena come avremmo voluto o immaginato, quella del Cristo, se non forse nell’ultimo respiro, quello urlato, quello del tutto è compiuto: nelle tue mani affido il mio spirito. Questa lettura viene a dirci che il radicale rifiuto verso la morte, appartiene prima di tutto a Gesù. Sentiremo anche noi questo dolore. Meno forte nella misura in cui Lo avremo seguito in vita e ricorderemo che Lui, su questa via, è già passato ed ora cammina con noi: ci tiene la mano nel mezzo.

La prima lettura, infine, mostra Dio che si rivela come Dio di Misericordia: Io perdono la loro iniquità e non ricordo il loro peccato. Tutti mi conosceranno dal più grande al più piccolo. Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Metterò la mia legge dentro di loro, la scriverò nel loro cuore. Qual è la legge che Dio vuole scrivere nel cuore: se non il fatto che Dio perda tutto, pur di non perdere l’uomo che chiede di Lui? Mi sono a lungo interrogata circa l’idea della mia iniquità. Cosa è? Perché mi pervade e non riesco a venirne a capo? La mia iniquità, forse, non consiste nella mia debolezza di fronte al peccato. Non è giusto l’uomo che ha una maggiore forza da esercitare per resistere al male e alla tentazione. L’uomo giusto è colui che accetta la propria condizione di uomo fallibile e mortale, ma legato indissolubilmente a Dio da una alleanza eterna di amore misericordioso. Il bene che possiamo compiere, il male che possiamo decidere di non compiere, ogni nostro agire nel bene non ha origine nella nostre forze, ma dalla nostra intimità con Dio. La nostra possibilità di amare è viva nel suo amore per noi. La nostra salvezza è rifiorisce nella pioggia della misericordia che cade su di noi, ogni volta che ne sentiamo il bisogno e gliela imploriamo. La sua legge, dentro di noi, opera il bene e può renderci nuovamente opera delle sue mani.

(Daniela O.)

O Dio,
noi non cerchiamo la nostra perfezione,
perché sarebbe un miraggio
che ci immergerebbe nella delusione
di non raggiungerla mai; 
perché sarebbe un giogo
che abbasserebbe le nostre spalle;
perché sarebbe una legge
che nasconderebbe agli altri
la buona notizia della tua grazia.
Noi non cercheremo la perfezione disumana.

Ma vogliamo guardare alla tua perfezione:
Tu che fai sorgere il tuo sole
sui cattivi e sui buoni;
che fai piovere sui giusti e sugli ingiusti;
Tu che fai vivere e non morire,
fiorire e non appassire;
Tu che sei un Dio vivente e vivificante.

Vogliamo scambiare
il nostro perfezionismo sterile
con la tua perfezione feconda.
Vogliamo dedicare la nostra vita
ad allontanarci da noi
per rivolgerci a Te.
Amen.

(André Dumas, Cent prières possible)


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Piccoli Pensieri (1)

Oggi a messa il prete durante la predica ha fatto un parallelo tra il battesimo originario (rivolto a catecumeni adulti, o comunque non neonati) che prevedeva l’ immersione totale sott’acqua ed il chicco che deve morire per dare frutto. Non mi era mai capitato di pensarci, ma in effetti ha anche un suo certo senso. In fin dei conti quando torniamo in superficie dopo una pur breve immersione è effettivamente un po’ come se “tornassimo a vivere”. E allora ho pensato a tutte le quotidiane preoccupazioni che “mi tolgono il fiato”, e ho pensato che, forse, una buona preparazione per la rinascita Pasquale potrebbe anche essere quella di “allenarsi” (almeno un pochino) a liberarsi di qualche preoccupazione. Provare a lasciarne perdere una, magari due, per provare ad affidarsi, almeno un pezzetto, del tutto a Dio.

17 Marzo 2024

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