Passando, Tu liberi e salvi
Triduo pasquale, nella notte tra il giovedì e il venerdì santo
Passato l’inverno, freddo e rigido, i pastori preparano le greggi per uscire e trovare pascolo. Gli animali, naturalmente, escono dal letargo come richiamati dalla luce e dal calore del sole o dalla terra stessa che già si appresta a fiorire nuovamente. Ogni anno il medesimo e affascinante spettacolo: nell’alternarsi cadenzato delle stagioni, tutto si rinnova. Forse è da cercare qui il primo significato della pasqua: passaggio da luoghi chiusi verso spazi aperti e dal rigore invernale sinonimo di morte alla fioritura primaverile segno di rinascita, dopo la silenziosa gestazione della madre terra.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce. (salmo 21)
A queste immagini agresti e primaverili si rifà probabilmente l’autore di uno tra i più celebri salmi. La vita nel suo scorrere, il tempo nel suo alternarsi è sempre fonte di ispirazione, di riflessione. Spunto per la preghiera. Molto più di quello che pensiamo può rimandarci alla Pasqua. Anche Gesù doveva amare questa simbolismo: il popolo come un gregge e Lui già paragonato ad un agnello mite condotto al macello, agnello che diventerà pastore per condurre i suoi a libertà.
Un gruppo – sparuto o crescente, questo è relativo – un gruppo di uomini, donne e bambini si scoprì gregge quando ad un tratto si trovò in cammino dietro ad un uomo a cui era stato concesso di riprendere vita dandosi da fare come pastore d’un gregge, quello di Ietro, sacerdote di Madian. Questo pastore di fortuna, fu proprio lui a trovarsi un giorno davanti ad un insolito spettacolo: un roveto che senza consumarsi ardeva in continuazione. Da quella fiamma viva una Voce prese a parlare… in una confidenza sempre più crescente, parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11). Il volto di colui che aveva iniziato ascoltando la Voce dal roveto, salito più e più volte in cima al monte Ore, col passare del tempo diventava sempre più luminoso. Il pastore si chiamava Mosé e divenne l’interprete primo della Parola.
Uno giorno il Signore parlò a Mosé, dettandogli per filo e per segno un particolare menu di una cena che avrebbero chiamato «la Pasqua del Signore». Ciascuno – disse il Signore – si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne.
Consegne precise, che suonano perfino come indizi per un’economia comunionale e di condivisione, senza spreco di cibo. Temi ancora interessanti ai nostri giorni. Comunione e condivisione di cibo che farebbe passare molti dalla fame alla tavola. Chiusa parentesi.
In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con àzzimi e con erbe amare. Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. (Es 12,1-8.11-14)
Per quale ragione Dio dovrebbe scomodarsi a suggerire un simile menu? E cosa mai possono voler dire queste consegne, quando da Dio ci si aspetterebbe a volte ben altro. E poi quel sangue dell’agnello da mettere sugli stipiti delle porte di casa di tutti coloro che erano al corrente di questa cena da compiere con la precisione dei riti, con la dovizia di una liturgia… senza tuttavia comprenderne il senso.
Eppure mangiarono. Obbedendo. E in quella notte il Signore passava ora nella forma di uno sterminatore, ora nella forma di colui che passerà oltre. L’obbedienza alla Parola aveva in quella cena il sapore d’essere passati al vaglio e d’essere risparmiati. Ma non dalla fatica. Consumarono quell’insolita cena – la Pasqua del Signore – e poi partirono, notte tempo, seguendo il pastore, Mosè il quale aveva appreso a distinguere la direzione che il Signore tracciava per quel cammino di liberazione attraverso l’ombra d’una nube di giorno e una colonna di fuoco in piena notte. Protetti e rischiarati dunque.
Un cammino faticoso quello verso la liberazione. A volte pareva di morire in quel deserto! E dubitarono del cammino e del pastore… e del Signore. E già avevano passato il mare, illesi. Il viaggio durò giorni, mesi e anni. Il viaggio – forse – dura una vita. Strappare un popolo dal deserto è più facile che togliere il deserto dal cuore dell’uomo. Questo è il passaggio decisivo: far fiorire una vita, fare che porti frutto.
Ma torniamo a quel giorno. Il giorno di quella cena chiamata la Pasqua del Signore. Questo giorno – aveva detto – sarà per voi un memoriale. Per tutti gli anni a venire, alla stessa data, nel medesimo giorno, la stessa cena, lo stesso menu. Gli stessi cibi, ma con il gusto di poter approfondire sempre più. La stessa sorte, lo stesso cammino… ma con la gioia di poterla rivivere non più da schiavi ma da liberi. E così accade nel seder pasquale ebraico: ogni anno, ancora oggi, il più giovane chiede al padre quali sono le ragioni di quell’insolita cena. E il padre racconta al figlio e ai presenti gli avvenimenti accaduti come se in ogni generazione ciascuno si deve considerare come se lui stesso uscisse dall’Egitto.
Venne – anche per Gesù e i suoi discepoli – il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva sacrificare la Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni, dicendo: «Andate a prepararci la Pasqua, affinché la mangiamo». Essi gli dissero: «Dove vuoi che la prepariamo?». (Lc 22,7-9). Della Pasqua, fino a quel giorno, i discepoli di Gesù sapevano soltanto quanto ci siamo raccontati fin qui. E questo si apprestavano a vivere, obbedienti al comando già divenuto tradizione.
Nel mezzo di quella cena – la pasqua del Signore – Gesù compie due gesti che hanno il sapore dell’incomprensibile, come incomprensibile fu la prima pasqua del Signore, quando cioè il popolo non era ancora stato liberato dalla schiavitù. E così quella sera, prese la coppa della benedizione e disse che quello era il suo sangue versato per il perdono dei peccati. Che cosa mai voleva dire? Ancora non lo compresero. E prese il pane dicendo che quello era il suo corpo dato. Che cosa mai voleva dire? Ancora non lo compresero. E poi si alzò da tavola, tolse la veste del Maestro e del Signore, e lavando i piedi dei suoi discepoli spiegava che potere c’è nel servire. Signore è colui che può decidere liberamente di servire; Signore è colui che liberamente può decidere di donare la sua vita prima che altri gliela tolgano con violenza. Maestro è colui che senza troppe parole ma con il suo esempio può insegnare a vivere amando. Ma non compresero. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo».
Questo fa la Pasqua del Signore, questo fa quella fede che abbiamo ricevuto in dono: non comprendiamo subito, ma Gesù ci rassicura che capiremo dopo. Dopo quando, chiederemo noi che come bambini abbiamo sempre fretta di sapere e come adulti avidi non conosciamo più la pazienza e la lentezza positiva di un cammino? E allora, dopo quando? Dopo che tutto sia compiuto. Dopo che Lui avrà dato compimento alla Legge, senza tralasciare un solo trattino, senza cancellare uno iota (Mt 5, 17-19)
E quando disse «fate questo in memoria di me» già pensava a quel dopo che fu la sua morte in croce e la sua resurrezione. Quando i suoi discepoli ricordandosi delle Sue parole ripresero a raccontare di ciò che avevano fatto e vissuto in sua presenza, senza vergognarsi di lui. E dopo la sua morte – dopo il tempo incerto del dubbio, dell’esitazione, della vergogna o della paura di essere suoi – dopo la sua risurrezione, tornarono a celebrare quell’ultima e unica cena di Gesù, divenuta ormai nuova ed eterna alleanza.
Lui sa pure quanto per noi sia difficile comprendere ogni cosa. E di cose ce ne avrebbe dette ancora ma sapeva che non ne avremmo portato il peso. E così Lui ha portato il peso di cose difficili per noi da comprendere e da sopportare. Risorgendo ci dona il tempo che si apre oltre la sua morte, il tempo per noi di ripercorrere, di riascoltare parole e racconti, il tempo per noi di apparecchiare una tavola o un altare…
Questa è la Pasqua che noi stiamo celebrando. A primavera, dopo un’antica liberazione dall’oppressione e dalla schiavitù, emblema di ogni liberazione. Che stagione è questa che stiamo vivendo e di cosa dunque abbiamo bisogno d’essere liberati perché sentiamo quanta luce c’è in ogni Pasqua? E quanta luce fa ancora quel roveto ardente, quanto forte è la Parola capace di richiamarci dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita?
Da cosa dunque dobbiamo essere liberati?
Signore, tu lo sai!
Salvaci, Salvatore del mondo!
In questo nostro mondo, carente in empatia, la chiederei in abbondanza, in tutti gli ambiti: sociale, sanitario, economico, finanziario, per non essere considerati sempre più numeri.
Tanti auguri di nuova vita e nuove speranze!
Grazie per essere in mezzo a noi e trasmetterci così tante emozioni.
Per tutte le donne con i loro bambini e per gli uomini che lasciano le loro terre con “le mani alzate”, perché oppressi per ragioni diverse, affinché possano vedere la luce, la stessa che avranno visto quel mattino gli israeliti, dopo la notte di Pasqua, mettendosi in cammino, liberi.
Benedetto questo giorno di silenzio, l’unico dell’anno, che ci permette di fermarci sulla storia della salvezza, che è la nostra storia, e ci costringe a riflettere sulle nostre schiavitù e a riconoscere la vera libertà che solo Lui ci può dare.
Buona Pasqua a te don Stefano e a tutti quelli che qui ti seguono.
Oggi la Chiesa celebra il venerdì Santo. Non devo essere triste , comunque, perché se mi soffermo sul salmo che recita : ” Il Figlio imparò l’obbedienza da ciò che sofferse: ci insegni a rinnegare noi stessi e caricarci della croce di ogni giorno” , è pur vero che ciò che di faticoso vivo io, lo ha vissuto prima Gesù Cristo. Mi è compagno di cammino, quindi non sono sola e sono desiderosa di imparare l’obbedienza da Lui.