Magma e Gemiti

Categoria :Omelie
Data :9 Settembre 2018
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XXIII domenica del Tempo Ordinario

(Isaia 35,4-7 / salmo 33 / Giacomo 2,1-5 / Marco 7,31-37)

Ci aveva messi in guardia: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo». Non tanto per spaventarci – non era il suo mestiere. Piuttosto lo fu il contrario! – quanto per invitarci all’ascolto. Un ascolto profondo come quando attendi di sentire il rumore del sasso lanciato dalla cima del pozzo toccare il pelo dell’acqua. Una distanza abissale tra la superficie e quel tonfo nel profondo. Ascoltare è operazione della fede. Tutto va ascoltato. Per conoscere. Per discernere.
Un figlio seminato nel grembo di una donna è altra cosa. È già una buona notizia. Novità. Lui pure in principio sta dentro. Una Promessa di Vita. La Madre e il Padre imparano ad ascoltarlo ancor prima che lo si veda e che veda la luce. È proprio quell’ascolto attento e vigilante che è venuto a chiederci. Un ascolto in favore della Vita. È dunque una necessità – non un dovere – quello di dare voce a ciò che ci attraversa, a quel magma incandescente di sentimenti, di emozioni, di pensieri. Troppo spesso soffocati. Troppo spesso inespressi. Il cuore dell’uomo è da ascoltare. Sordità e mutismo sarebbero proprio l’espressione di questa nostra incapacità ad ascoltare e a dar voce.
Da dentro nasce tutto. «De profundis»… dal profondo noi gridiamo (salmo 129). Se avessimo il coraggio di toglierci per un istante quel perbenismo religioso (simil-cattolico) che troppo spesso ci ha fatto abortire questi nomi che dobbiamo imparare a dare a ciò che c’è dentro… oggi pronunceremmo anche noi una parola, che apparentemente giudichiamo estranea al vocabolario della fede.
Vendetta.
«Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». L’ha pronunciata per noi Isaia. Un profeta, sulle cui labbra si accendono le roventi parole di Dio. Il profeta non le può trattenere per sé. Sono troppo incandescenti. Come un vulcano che deve eruttare. E questa parola improvvisamente diventa essa stessa Parola di Dio. È nella bocca, sulle labbra ma viene da dentro. E Dio stesso conosce questa parola-desiderio.
E chi non la conosce? L’abbiamo spesso taciuta. Semplicemente! Da piccoli si era più sinceri, anche con gli amici: «Te la farò pagare!». E tutto finiva lì. Da grandi invece è un po’ come una bomba ad orologeria la vendetta. A scoppio ritardato. Ed esplode quando nessuno se lo aspetta. Solo chi ha confezionato l’ordigno decide quando detonarla. Gesù stesso attesta che dentro le viscere di Dio c’è spazio per sentimenti di vendetta. Lo attesta Lui perché uomo come noi, Lui perché figlio di Dio conosce quello che c’è nel Padre.
Lo so, non sembra proprio una meditazione edificante ma non è certamente più scandalosa di tante ingiustizie che fanno aumentare la pressione in chi le subisce. Il nostro tempo, gli uomini e le donne nostri contemporanei lo attestano. I social sono questa colata incandescente di sete di vendetta o di denunce contro ogni forma di ingiustizia. Giacomo, nella sua lettera, non fa che darcene un esempio: la preferenza che si fa per chi è meglio vestito rispetto ad un poveraccio sgualcito. Vendetta nasce da ingiustizia. Vendetta nasce da quel sentimento di esclusione più o meno esplicitato ma percepito chiaramente da chi è escluso. Anche un sordomuto lo sa. E spesso sono proprio quelli che non hanno mai udito o non hanno mai parlato che sentono le cose più profondamente, quasi costretti dalla vita a sviluppare altre sensoriali per rimanere vivi. Ma ancora troppo spesso ai margini.
Mi imbatto spesso in persone anziane che lamentano di sentire male quando sono in chiesa. È colpa del microfono, dell’altoparlante. È colpa di chi legge che ha un tono di voce non adeguato, che non scandisce le parole. Al massimo, con l’aiuto del labiale colgono qualcosa. Ma è troppa la rabbia di avere a che fare con un principio di sordità. Ci sono poi genitori che lamentano di non essere ascoltati da figli ai quali si sono ripetute le stesse cose per un numero imprecisato di volte. Gli stessi figli poi fanno spesso scena muta davanti ai genitori mentre «fuori» sono socievolissimi e loquaci, tanto da lasciare increduli i genitori stessi. Mi viene alla mente anche una nota pubblicità: un nonno partecipa ad una festa in casa con i suoi famigliari ma non riesce a gustare appieno della festa. Il suo udito si sta deteriorando e il genio pubblicista ce lo presenta come fosse dentro una bolla di vetro. Vede tutto quanto accade ma non sente perfettamente. Tutto sembra ovattato… e la comunione non è piena. Il suo volto esprime insoddisfazione. Un immagine efficace.
Non ascoltare, non essere ascoltati, non riuscire o non poter parlare… incomunicabilità che genera dentro frustrazione e fuori incomprensioni. Gemiti di rabbia, di quelli da mangiarsi le mani quando non si è capiti. «Gli portarono un sordomuto» dice il Vangelo di questa domenica. Gli portarono cioè tutto questo malessere, questa incomunicabilità dell’uomo con l’uomo. Un mondo gli portano, non soltanto un tizio! Il mondo del tizio e il nostro mondo. Chiedono un gesto religioso: «lo pregarono di imporgli le mani». Lui invece non compiva gesti religiosi ma rendeva sacri – e puri – quei gesti che dicono l’intimità ma che portano sempre un certo rischio di contagio. Un dito nelle orecchie e con la saliva gli tocca la lingua. Un gesto che meriterebbe il titolo di «impuro» a Colui che sapeva invece purificare le relazioni umane. Ci voleva però questa riluttante vicinanza a fronte di tanta cieca indifferenza davanti ad un sordomuto. Fu il gesto di Gesù. Lo ripetè Francesco di Assisi similmente con il lebbroso.
Poi – dopo aver guardato il cielo – «emise un sospiro». Un gemito. Meglio detto. È il gemito del sordomuto e Lui, la Parola, mugugna come il sordomuto. Gli si mette accanto e parla la sua stessa «lingua» come a confermagli che Dio ha ascoltato il gemito del povero. Come a rassicurarlo che se sono in due a mugugnare, il cielo ascolterà. Gesù si fa lui stesso interprete. In quel gemito c’è il gemito di tutta la creazione, secondo l’espressione poetica di san Paolo «Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Romani 8, 22-23).
Dopo il gemito, una parola. È sordomuto. Non puoi fargli un discorso. Non conosce i suoni e neppure il significato di quanto gli stai dicendo. Deve imparare tutto. Ma basta una parola per salvare. Bisogna trovare quella giusta. «Effatà» cioè «Apriti». Grazie a Marco, l’evangelista intendo, che ci ha riportato anche la traduzione… altrimenti noi stessi saremmo stati nella condizione di non sapere neppure. Ci basta una parola non nella nostra lingua per mandarci in tilt, per farci arrabbiare. Mai successo?
Quel gemito è sete di vendetta. Quella parola è vendetta in atto. Ora la comunione è piena. Dio sente ciò che noi proviamo e lui prova compassione per ciò che sentiamo, diciamo, vediamo. Ma ben differente è il modo di fare vendetta. Noi confezioniamo vendette maligne. Dio offre vendette benevole e tutti – nonostante fossero invitati al silenzio (paradosso evangelico!) – riconoscono che questa vendetta è buona. «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!». Così riduce al silenzio nemici e ribelli!
Dietrich Bonhoeffer, pastore della Chiesa protestante, diceva che è più grande un uomo che sappia dire «Gesù è buono» di un teologo che mi possa spiegare che Gesù Cristo è la seconda persona della santissima Trinità. Mai come in questo tempo facciamo esperienza di quanto la nostra fede è spesso afona, le nostre parole incapaci di parlare, di generare comunione. A volte bestemmiamo Dio senza necessariamente attribuirgli titoli sgradevoli ma accusandolo di cose che non vanno o di tegole che ci sono cadute in testa. Perché il nostro credere torni ad essere loquace possiamo partire proprio da questa semplicissima quanto profonda espressione di Bonhoeffer: «Gesù è buono!» È buono per me, per ciascuno. Come il pane di ieri che è buono anche domani.
Risuonano ogni domenica in un bellissimo dialogo queste parole: «Beati gli invitati alla cena del Signore. Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo». E tutti rispondono: «Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato». Una sola parola. Proprio come nel Vangelo di oggi. Gesù non fa discorsi. Una parola «Apriti!» per detonare la vendetta di Dio. Certo che si potrebbe uscire da quel luogo chiuso con la gioia di aver provato che solo aprendoci le cose possono andare meglio, che solo aprendoci l’uomo è sano e salvo!


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