Il pastore percosso parla ancora alle pecore
IV domenica di Pasqua (B)
(At 4,8-12 / Sal 117 / 1Gv 3,1-2 / Gv 10,11-18)
…donaci di ascoltare oggi la sua voce,
perché, riuniti in un solo gregge,
gustiamo la gioia di essere tuoi figli.
Amen.
(dalla liturgia odierna)
Dal Vangelo secondo Giovanni
(10,11-18)
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Fu il profeta Zaccaria (13,7) a parlare di un pastore percosso il cui gregge si sarebbe subito disperso. La profezia dovette suonare quasi incomprensibile all’orecchio dei suoi uditori – chi sarebbe stato quel pastore percosso? – ma è proprio questa parola profetica che Gesù stesso richiama alla mente dei suoi discepoli appena giunto nel giardino del Getsemani, dopo aver celebrato con loro l’ultima cena. Gesù disse loro: «Voi tutti sarete scandalizzati di me questa notte perché è scritto: “Io percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”. Ma dopo che sarò risuscitato vi precederò in Galilea». (Mc 14,27-28).
E fu proprio così: percossero il pastore per disperdere il gregge, per disgregare un gruppo di discepoli che poteva diventare pericoloso. Le parole del Maestro e le sue stesse azioni disturbavano le autorità costituite, sovvertendo un ordine che comunque era precario, mettendo in crisi un sistema sociale fatto ancora troppo d’oppressione. Lui era venuto per dare la vista ai ciechi, per rimettere in libertà i prigionieri e quanto siamo ciechi pur vedendo o schiavi pur essendo liberi, lo sappiamo troppo bene.
In effetti suonano ancora come scandalose la parole del Vangelo quando al male non si dovrebbe che rispondere col perdono; quando alle percosse dovremmo rispondere porgendo l’altra guancia; quando davanti alla violenza si resta fermamente miti. È questo che non accettiamo del Vangelo e lo troviamo scandaloso e irragionevole. Ma se il Vangelo è anzitutto Gesù stesso, questa buona notizia – così scandalosa ai nostri pensieri – è già la sua stessa vita, i suoi sentimenti e le sue attitudini davanti alle ingiurie da lui stesso subite.
E così, dopo i giorni della dispersione del gregge, torna in questa domenica di Pasqua la figura del pastore e delle pecore. Il Risorto è il buon pastore e noi pure siamo parte di quel gregge radunato ancora oggi per ascoltarne la voce ci colui che impariamo a riconoscere proprio come Pastore. Le immagini evocate da queste parole di Gesù probabilmente chiedono a noi un certo sforzo per comprenderle data la nostra distanza da quel tipo di società legata alla pastorizia anche se non serve necessariamente conoscere usi e costumi di pastori e pecore per comprendere il legame di conoscenza che si instaura tra loro.
Non esita il buon Pastore a parlare di vita. Non esita a donarla. Non esita il Pastore a parlare di un’altra relazione quella con il Padre e forse è proprio qui che deve cadere la nostra attenzione. È così normale per noi sentire Gesù parlare del suo legame col Padre; è cosi scontato che egli ne sia il Figlio… ma queste affermazioni avevano proprio una portata altamente scandalosa e non dimentichiamo che attorno a queste affermazioni trovarono ragioni per crocefiggerlo. A coloro che credono d’essere già arrivati cosa importa di sapersi in realtà ancora pellegrini, nomadi, gregge? A coloro che già potrebbero vantare d’essere figli di Abramo cosa serve sapere che in realtà siamo figli di un solo Padre?
Sono molto superficiali le nostre affermazioni quanto al mondo monoteista di cui diciamo di far parte. Siamo figli di Abramo sì e come lui affermiamo l’esistenza di un solo Dio che tuttavia nessuno ha mai visto e dunque nemmeno sapremmo come poterlo chiamare per rivolgerci a Lui. È il buon Pastore che insiste nel farci comprendere che questo Dio unico lo possiamo chiamare Abbà, Padre. È, se volete, un tema che attraversa le lettere di Giovanni: Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. (1 Gv 3,1-2a)
Che Dio è Padre e noi siamo invitati – per pura grazia – a scoprirci suoi figli è tutto l’annuncio evangelico che Gesù ci ha dato a caro prezzo, il prezzo del suo sangue. Sono affermazioni che rischiamo di banalizzare e dare per scontate, ovvie; affermazioni diventate formule della nostra fede, una fede che si proclama spesso cantilenandola: Io credo in Dio, Padre (appunto!)… e in Gesù Cristo, suo unico Figlio… credo nello Spirito santo… crediamo alla chiesa perché ha un senso e un significato radunarsi ancora attorno al buon Pastore. È il modo più visibile per affermare che Egli è vivo e risorto.
Dunque crediamo in qualcosa o in qualcuno? E – non dimentichiamolo – noi crediamo senza aver visto. È piuttosto la voce del Pastore che ascoltiamo, mentre i nostri occhi ancora non vedono ciò che siamo o saremo realmente. Viene da qui la necessità evangelica di trovare immagini, similitudini, metafore… per fare in modo che la nostra attenzione si concentri e si focalizzi attorno ad esse. E mentre ascoltiamo la voce del buon Pastore, noi continuiamo il nostro cammino, la nostra vita.
E noi sappiamo bene quanto questa vita possa apparirci in palese contraddizione con le parole del Vangelo. «Se Dio è buono, perché il male?» (la questione andrebbe per altro completata con la sua affermazione uguale e contraria che dice: «e se Dio non fosse, da dove viene il bene?» … le due questioni sono il nocciolo di una materia filosofico-teologica che va sotto il nome di teodicea).
Il lupo – di cui Gesù stesso parla mentre parla di pastore e pecore – è parte integrante di questa esistenza terrena ed egli viene più volte a minacciare la vita delle pecore. Non c’è solo poesia nelle similitudini utilizzate da Gesù e se poesia potessero sembrare le sue parole è la poesia della Luce che splende nelle tenebre. Egli vede bene la minaccia che incombe sul suo gregge. La presenza del lupo è tanto concreta per Lui come per noi, così concreta che per difenderci da esso egli non esiterà a dare la sua vita. Il pastore percosso è già la vita salvata alle sue pecore. Fuggendo si nascosero, ma Dio sa dove e come cercare i suoi figli impauriti e terrorizzati dal lupo.
Le nostre affermazioni di fede per essere tali devono sempre fare i conti con la presenza del lupo e pure dei mercenari. Siamo esposti ma conosciuti dal pastore e da lui custoditi. Il buon Pastore non ci vuole chiusi in recinti. La gioia delle pecore stava nella loro pasqua, nella stagione in cui passato l’inverno si poteva finalmente uscire per cercare pascoli di erbe fresche, dopo aver sonnecchiato nel lungo inverno, dopo essersi nutriti di erbe secche. C’è gioia nel poter cercare pascolo, nel poter uscire da recinti e steccati… dalle nostre presunte sicurezze. La voce del buon Pastore ci dice che c’è Qualcuno là fuori, oltre le nostre paure, oltre le nostre chiusure: non c’è strada senza pericoli ma più grande di tutti i pericoli è l’amore del Padre. Il Figlio di Dio, colui che si paragona al buon pastore non esiterà a dirsi anche porta delle pecore. Egli diventa il simbolo di un passaggio (o conversione, se preferite) che dobbiamo fare dai recinti di una fede che abbiamo creduto di ostentare come solida ma che in realtà è ancora impaurita (ogni chiusura ne è la più naturale prova evidente!) ad un pascolo di vita che non ha confini, sebbene questa vita continua ad essere da noi percepita come minacciata e costantemente in pericolo. Il Pastore che guida il gregge – lo dice lui stesso – è venuto per dare la sua vita.
PERCHÉ TU SEI CON ME
(Gen Verde, Cerco il Tuo volto, canti per la preghiera)… in una versione cover trovata casualmente.
Solo tu sei il mio pastore Niente mai mi mancherà Solo tu sei il mio pastore, o Signore
Mi conduci dietro te sulle verdi alture ai ruscelli tranquilli lassù dov’è più limpida l’acqua per me dove mi fai riposare.
Anche fra le tenebre d’un abisso oscuro io non temo alcun male perché Tu mi sostieni, sei sempre con me rendi il sentiero sicuro
Siedo alla tua tavola che mi hai preparato Ed il calice è colmo per me Di quella linfa di felicità Che per amore hai versato
Sempre mi accompagnano Lungo estati e inverni La tua grazia, la tua fedeltà Nella tua casa io abiterò Fino alla fine dei giorni
Del mondo pastorale, è vero, conosciamo poco ma anche ai nostri giorni e dalle nostre parti capita di vedere la transumanza delle pecore con i loro pastori.
Secondo la stagione, o stanno andando su ai monti o stanno ritornando al piano per la brutta stagione.
E se ti fermi a guardare vedi e ti accorgi che pecore, agnelli, pastori, cani sembrano come un unico organismo con vita simbiotica.
Gesù sapeva e conosceva bene come funziona la nostra capacità intellettiva, per questo ha sempre preso esempio dalla nostra vita quotidiana, come il pane e il vino per designare il suo Corpo dato per noi.
Non abbiamo visto?
Ma la Parola è costantemente nelle nostre orecchie che ci guida sulla Via sicura.
La Fede ci aiuta ad affidarci alla Parola ed ai racconti di Gesù, che ci ha narrato come è il Padre.
E che Padre, con la P maiuscola nel quale ti puoi rifugiare con fiducia.
O BUON PASTORE
Dove vai a pascolare, o buon Pastore
tu che porti sulle spalle tutto il gregge?
Quell’unica pecorella rappresenta infatti tutta la natura umana che hai preso sulle tue spalle.
Mostrami il luogo del riposo. conducimi all’erba buona e nutriente, chiamami per nome, perché io, che sono pecorella, possa ascoltare la tua voce e con essa possa avere la vita eterna.
(S. Gregorio di Nissa)
A proposito di pecore e pastore…
Qualche settimana fa, nei campi dietro casa mia, ha stazionato un gregge per un paio di giorni e altrettante notti.
Nel buio della sera, la fioca luce della piccola roulotte del pastore, attirava la mia attenzione.
Le pecore dormivano beatamente e al sicuro e questa luce a me trasmetteva pace e serenità (pur non essendo “pecora di quel recinto”).
Poi, lo stesso cielo custodiva il nostro sonno…
E poi è arrivato S. Francesco che con il lupo ha parlato.
Questo forse ci dice che, se riponiamo la nostra fiducia nel buon Pastore, non dobbiamo avere paura di uscire dal nostro recinto.
E nemmeno essere gelosi delle pecore di altri recinti, perché il suo amore non è nostra esclusiva…
Quanti inutili conflitti, piccoli e grandi, si potrebbero evitare.
Abbiamo una grande speranza,
abbiamo una grande gioia,
abbiamo una grande pace,
abbiamo un Tutto che si mette nelle nostre mani ogni domenica ed in ogni celebrazione Eucaristica: Gesù Cristo!
E allora mi ripeto spesso questo, quando vedo la mia/nostra pochezza: “non temere piccolo gregge”, perché hai un grande e solo pastore.