Ascoltare per credere. Credere per camminare. Camminare per vivere.

Era inverno. Non certo l’inverno rigido delle montagne innevate ma comunque l’inverno di una città posta su colli di un certo rilievo, esposta dunque ai venti. L’aria, d’inverno, anche a Gerusalemme è fredda e ci si ripara come pecore nel recinto o ci si avvicina al fuoco per scaldarsi. Il portico del Tempio era un luogo sicuro per ripararsi dai venti. Si avvicinavano dunque ad ascoltare Gesù come si fa per scaldarsi al fuoco: le sue parole davano alla vita un calore particolare. Invece i Giudei, tra i suoi ascoltatori, quando lo ascoltavano si sentivano togliere il respiro: si consumavano al pensiero di trovare certezze. Intanto il tempo passava… e loro, immobili, non avevano ancora da muovere un passo verso la Vita. Non volevano prendere rischi, volevano essere sicuri prima di muoversi, prima di esporre se stessi nell’atto più umano che ci sia: fidarsi, avere fede. 

Gesù parlava per aprire nuovi orizzonti, spazi più aperti entro cui vivere ed essi si sentivano soffocare, come privati di uno spazio entro cui muoversi. In effetti si tratterebbe proprio di uscire dall’angusto spazio di un vivere privo di fede. Per molti, credere è farsi padroni di uno spazio di potere. Per Gesù credere era lasciare tutto.

Si sentivano imprigionati nell’incertezza: non erano sicuri che potesse essere Gesù quel Cristo che attendevano. Troppi fallimenti in passato. Troppo olio sprecato su re che si rivelarono una delusione. E Dio permetteva: lasciava che eleggessero dei rea guida e lasciava pure ai re di sbagliare. A leggere le Scritture, fin dai tempi di Mosé, ci si accorge di come il popolo di Dio volle come guide dei giudici e dei re.

Probabilmente faticavano a fidarsi di Mosé: non si spiegavano come un pastore di fortuna potesse diventare guida di un popolo. Mosè stesso, il balbuziente, non se lo spiegava. Eppure fu proprio Mosé a guidarli, come un pastore con sue le pecore, verso la libertà. Il cammino fu lungo e ritardato dalle continue lamentele di un popolo esausto ed estenuato. Ma la fatica non era nelle gambe. La fatica era della fede, del fidarsi di ciò che non si vede: erano diretti verso la libertà dei figli ma preferivano l’oppressione che assicurava almeno il cibo.

Nacque così nel popolo di Dio il desiderio di voler assomigliare alle genti, quei popolo che avevano incontrato sul loro cammino, ciascuno con un suo re. Desiderio da pecore: l’erba del vicino pareva più verde! Il popolo che Dio s’era scelto invece non avrebbe dovuto. Per non assomigliare a tutti quanti. Dio doveva essere loro unico Signore. Dio – bontà sua! – concesse loro di fare anche quell’esperienza. Come fa un padre. Avverte, ammonisce e poi lascia che il figlio faccia di testa sua. Attendendo il ritorno degli erranti. O come fa il pastore quando cerca la pecora perduta.

E fu un susseguirsi di re accompagnati dal titolo messianico, come se Dio stesso li avesse mandati. Mandò anche profeti a suggerire indizi e criteri per una scelta che fosse più consona ai pensieri di Dio: la scelta ricadeva allora su figure esili, spesso minuscole, figli insignificanti mandati nei campi ad essere pastori, così poco considerati che quasi erano dimenticati dal numero: Davide – per esempio – un pastore divenuto Re. Compresero che il Messia doveva discendere da questo pensiero (?). Due Vangeli sentiranno necessario attestare per iscritto il legame di sangue tra questo giovane pastore divenuto Re e il figlio del falegname Giuseppe. E scrissero: «Genealogia di Gesù Cristo…»

Ma nessuno fu mandato da Dio se non Colui che stavano ascoltando, al quale tuttavia non vollero credere. Aveva nozioni di regno e di popolo ben diverse. Discendente davidico, Gesù prenderà questo pensiero di Dio per essere pastore e Cristo: non il potere, ma il servizio; non il regno ma il pascolo; non dei sudditi ma delle pecore; non dei ministri ma dei discepoli. La sua discendenza, il suo stile e le sue opere già davano testimoniavano di questo legame col Padre. Non vollero ascoltarlo perché non credevano che quella potesse essere la via per la Vita.

Noi ti seguiamo, Signore Gesù:
ma per poterti seguire, chiamaci
perchè senza Te nessuno procede innanzi.
Fa’ di noi degli esseri vivi,
poiché Tu sei la Vita.

(sant’Ambrogio)

Dal Vangelo secondo Giovanni (10,22-30)

Ricorreva, in quei giorni, a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente».
Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Quand’ero fanciullo, Signore, non lo sapevo.
Non sapevo che si può essere stanchi,
stanchi di se stessi.
E dirsi che abbiamo sbagliato vita.
Ho conosciuto tante tentazioni:
Ma questa, credo; è la più forte.
Desiderare una salute migliore,
uno spirito più brillante, 
un corpo meno debole,
un’istruzione superiore…
Una situazione diversa,
o quella stima di cui altri godono…
Scoprire negli altri cento vantaggi
che mi avrebbero fatto comodo,
e cento facilitazioni che non ho mai avuto…
Signore, c’è tanto tempo da vivere,
ed è troppo tardi per sognare.
Sapere che l’impossibile non esisterà mai.
Sapere questo, Signore, è già avere la luce.
Ed ecco che essa mi viene
da dove non mi sarei mai aspettato.
I sogni sono finiti.
Mi resta la mia vita, la vera,
quella che debbo amare.
La mia vita, quale è,
e la mia povera salute.
E tutto il resto che non desideravo più.
Tutto questo, Signore, vorrei accettarlo.
E accettare me stesso, povero come sono.
E non tormentarmi più al pensieri
di ciò che avrebbe potuto essere.
E trovare la felicità nel fare quello che posso.

Lucien Jerphagnon (1921-2011) tratto da «L’absolue simplicité »

Luigi Chialiva (1841-1914), Giovane pastore col suo gregge

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