A più mani

Data :15 Gennaio 2021
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Entriamo nel mondo e senza saperlo ci troviamo – per la maggior parte dei casi – circondati benevolmente da altri. Le loro cure e il loro affetto. Di un piccolo individuo, ultimo arrivato, si dovrà presto cominciare a conoscere la personalità e il suo «io». Gli anni della scuola sono i primi voli fuori dal nido, sono la scoperta degli altri. L’incontro con loro. Gli amici e i compagni, gli adulti che insegnano: le conoscenze e le scoperte ampliano gli orizzonti, si allarga la mente e il cuore e scopriamo, infine, che il mondo è più grande di quanto potessimo pensare. Sono solo i ritrovamenti casuali che ci fanno esclamare «Com’è piccolo il mondo!». Perché in quel preciso momento, nell’attimo della sorpresa e del ritrovamento, più grande pare la gioia dell’incontro e dell’altro ritrovato. Di mezzo poi c’è un’eta adulta che pare soltanto rivendicazione delle proprie autonomie e libertà (spesso false). L’autosufficienza è soltanto un miraggio, un’illusione. Per l’uomo in quanto tale e per l’essere umano con tutte le altre creature. Molti intendono l’autosufficienza con il fine, lo scopo raggiunto. Per poi tornare, alla fine, ad aver nuovamente bisogno degli altri senza nemmeno più essere così ben disposti.

Ci sono cose che da soli non possiamo proprio compiere. In alcun modo. Fin da piccoli. Ma pure una volta che siamo cresciuti e divenuti adulti. E probabilmente sono proprio quelle cose che, con un po’ più di coscienza, chiederemmo maggiormente. A nominarle su due piedi, presi all’improvviso, non sapremmo nemmeno cosa chiedere. Se poi dovessimo deciderlo insieme, passa ancora del tempo. Se qualcosa non lo desiderassimo o non lo chiedessimo questo significherebbe soltanto che ce la saremmo cavata da soli. Magari maldestramente. Forse senza nemmeno essere certi di aver ottenuto.

Un uomo paralitico per poter giungere in quella casa che pare essere il Vangelo stesso e dove oggi ci siamo anche noi, ha bisogno di quattro portatori. Non sappiamo se sia lui ad aver chiesto di essere portato in mezzo a quella folla di gente malata. O se quattro vecchi amici hanno preso l’iniziativa. 

Gesù rivela subito che sono errate le nostre connessioni, le nostre associazioni di idee. È troppo facile pensare che quell’uomo s’è ridotto così per qualcosa che egli solo ha fatto e che ora, con cinico rigore, a tal errore debba pagare tal pegno. È proprio un modo per chiamarsi fuori da ogni responsabilità sociale, collettiva. Ed è una malattia anche questa.  Quei quattro portatori tuttavia non stanno a chiedersi che cosa non sia andato diritto, che colpa ci sia dietro quella postura fisica. Qualche legame ci potrebbe anche essere tra peccato e posture. Ogni peccato è sempre ripiegamento su se stessi. Ma l’accento qui vuole cadere sull’azione di quei quattro. E anche sulla parola di Gesù che sigilla la fede quando è corale. Quel giorno Gesù stesso vide davanti ai suoi occhi che alcuni uomini s’erano accordati sulla terra per chiedere qualcosa a Dio. E per il fatto che il pensiero cadde sul bisogno di un altro, già questo parla ampiamente della loro fede. Non pensano a sé. 

Malattia e peccato, per legati o no che siano tra loro (dai tempi di Giobbe se ne parla!) dicono concordemente una cosa: c’è bisogno di un Altro e degli altri. E per questo Cristo dirà di non essere venuto per i sani ma per i peccatori. Non per fare analogia tra malattia e peccato ma perché aveva colto che malato e peccatore si salvano sempre per un intervento esterno. Un singolo peccatore ha bisogno di un altro che lo riabiliti al «noi», che lo reintroduca alla fraternità. In una recente intervista papa Francesco ha affermato che è tempo di dimenticare l’«io» in favore di un «noi». E siamo qui proprio a guardarci attorno per considerare quanto non sia facile praticare il «noi». In nome di ciò che «io voglio», abbiamo disgregato il noi. Ancor di più oggi. Abbiamo cercato di praticare la nostra libertà personale, dimenticandoci degli altri e ci siamo ritrovati ammalati. Per questo ci ha lasciato il perdono dei peccati a rimedio. Ed è una gran fatica. Chiederlo e donarlo. Tendere la mano è azione che accomuna il bisognoso e chi aiuta. Lì in mezzo c’è Dio, nel punto preciso dove le due mani si incontrano. Dove miseria e misericordia si incontrano, lì scatta la scintilla di un nuovo inizio. 

Anche i deboli trovano in Te 
motivo di fiducia e di gioia.
Per chi ti cerca con sincerità e costanza
il tuo volto diventerà familiare.
Tu non fai mancare la forza di reagire 
a chi sa attingerla con fede da Te
e si lascia plasmare dal tuo Spirito.
Poiché ci concedi di avere fiducia in Te,
noi ci abbandoniamo nelle tue mani, o Dio.

Dal Vangelo secondo Marco (2,1-12)

Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola.
Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico. Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono perdonati i peccati».
Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?». E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate queste cose nel vostro cuore? Che cosa è più facile: dire al paralitico “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te – disse al paralitico –: àlzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua».
Quello si alzò e subito prese la sua barella, sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».

Puoi ascoltare ADESSO di Mariangela Gualtieri dalla sua stessa voce

Adesso è forse il tempo della cura.
Dell’aver cura di noi, di dire
noi. Un molto largo pronome
in cui tenere insieme i vivi,
tutti: quelli che hanno occhi, quelli
che hanno ali, quelli con le radici
e con le foglie, quelli dentro i mari,

e poi tutta l’acqua, averla cara, e l’aria
e più di tutto lei, la feconda,
la misteriosa terra. È lì che finiremo.
Ci impasteremo insieme a tutti quelli
che sono stati prima. Terra saremo.
Guarda lì dove dialoga col cielo
con che sapienza e cura cresce un bosco.

Si può pensare che forse c’è mancanza
di cura lì dove viene esclusa
l’energia femminile dell’umano.
Per quella energia sacrificata,
nella donna e nell’uomo, il mondo
forse s’è sgraziato, l’animale
che siamo s’è tolto un bene grande.
Chi siamo noi? Apriamo gli occhi.
Ogni millimetro di cosmo pare
centro del cosmo, tanto è ben fatto
tanto è prodigioso.

Chi siamo noi, ti chiedo, umane e
umani? Perché pensiamo d’essere
meglio di tutti gli altri? Senza api
o lombrichi la vita non si tiene
ma senza noi, adesso lo sappiamo,
tutto procede. Pensa la primavera scorsa,
son bastati tre mesi – il cielo, gli animali
nelle nostre città, la luce, tutto pareva
ridere di noi. Come liberato
dall’animale strano che siamo, arrivato
da poco, feroce come nessuno.

Teniamo prigionieri milioni e milioni
di viventi e li maltrattiamo.
Poi ce li mangiamo, poveri malati
che a volte non sanno stare in piedi
tanto li abbiamo tirati su deformi –
per un di più di petto, per più latte.
Chi siamo noi ti chiedo ancora.
Intelligenze, sì, pensiero, quelli con le
parole. Ma non vedi come non promettiamo
durata? Come da soli ci spingiamo fuori
dalla vita. Come logoriamo lo splendore
di questo tiepido luogo, infettando
tutto e intanto confliggiamo fra di noi.

Consideriamo il dolore degli altri
e delle altre specie.
E la disarmonia che quasi ovunque portiamo.
Forse imparare dall’humus l’umiltà. Non è
un inchino. È sentirsi terra sulla nobile terra
impastati di lei. Di lei devoti ardenti innamorati.

Dovremmo innamorarci, credo. Sì.
Di ciò che è vivo intorno. E in primo luogo
vederlo. Non esser concentrati
solo su noi. Il meglio nostro di specie
sta davanti, non nel passato. L’età
dell’oro è un ricordo che viene
dal futuro. Diventeremo cosa? È una
grande avventura, di spirito, di carne,
di pensiero, un’ascesa ci aspetta.
Eravamo pelo musi e code.
Diventeremo cosa?

Diremo io o noi? E quanto grande il noi
quanto popolato? Che delicata mano
ci vuole ora, e che passo leggero, e mente
acuta, pensiero spalancato al bene. Studiamo.
Impariamo dal fiore, dall’albero piantato,
da chi vola. Hanno una grazia che noi
dimentichiamo. Cura d’ogni cosa,
non solo dell’umano. Tutto ci tiene in vita.
Tutto fa di noi quello che siamo.

(Mariangela Gualtieri)


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Piccoli Pensieri (3)

Maria Rosa

Impariamo davvero l’umiltà e impariamo ad aver cura dell’umano e accordiamoci per il bene come i quattro portatori del paralitico.

15 Gennaio 2021
Gianna

Nessun commento oggi, ma una grande e profonda riflessione sulle tue parole e sulla sublime poesia che ci hai regalato. Grazie

15 Gennaio 2021

Sempre Mariangela Gualtieri scriveva:
“benedico ogni centimetro d’Amore ogni
minima scheggia d’Amore
ogni venatura o mulinello d’Amore
ogni tavolo e letto d’Amore
l’Amore benedico
che d’ognuno di noi alla catena
fa carne che risplende”
Ed è proprio vero che l’amore, il “dividere con” l’amore, ci rende davvero più splendenti, luminosi. Perché conoscere la vera natura dell’amore ci rende più capaci di amare sia noi stessi che gli altri, in un circolo virtuoso di reciprocità.

15 Gennaio 2021

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