Non con il compasso ma con la compassione

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Data :13 Luglio 2025

XV domenica del tempo ordinario (C)

Dt 30,10-14 / Sal 18Col 1,15-20 / Lc 10,25-37

Cerchiamo ancora il modo per conoscerlo, sapendo – ed è vero – che molti anni, secoli e due millenni, sono già trascorsi dal suo passaggio sul pianeta. Cerchiamo il modo per conoscere Gesù. Del suo passaggio ancora se ne parla ed è comunque sorprendente che ci siano ancora persone disposte a spendere il loro tempo a raccontare di lui. A vivere per lui. Che le sue parole, i suoi insegnamenti siano stati ascoltati, raccolti, scritti e trasmessi anche questo ha il sapore di qualcosa di straordinario. E più ancora è straordinario il fatto che a cadenza regolare ci si possa ritrovare per ascoltarne le parole, in tutte le varianti possibili. Oserei dire che proprio questo è uno dei modi con i quali possiamo conoscerlo… e ancora bisogna che siamo disposti ad ascoltarne la voce, la Parola. Quando tutto questo accade, se ci è dato di poter vivere quell’incontro domenicale che è un’assemblea liturgica… ecco che un incontro può avvenire, condizione indispensabile per conoscere.

Da tempo non scrivo. Era ancora quaresima e di cose ne sono accadute davvero molte. Non saprei dirvi se ho scelto di non scrivere più e di riprendere soltanto oggi. Di certo è che ciò che abbiamo continuato a vivere ciascuno nelle proprie comunità, magari proprio attorno ad alcune parole di Gesù… insomma il tempo dell’incontro e della conoscenza sono continuati. Proprio nelle comunità dei suoi discepoli, quelle di oggi, quelle in cui ciascuno può scegliere di vivere, proprio lì il Signore è vivo, si lascia incontrare, si manifesta. Mi pare abbastanza evidente che le Sue parole parlano ancora, anche se spesso serve spiegare qualcosa in più per ricostruire un contesto, un paesaggio, una situazione. Si tratta spesso e volentieri di accompagnare a scoprire che situazioni e sentimenti d’un tempo lontano sono ancora così spesso le nostre. Non una storia che si ripete, non un circolo vizioso… semplicemente si tratta della stessa materia – quella umana  – che mai avremo conosciuto a sufficienza. È di questa umanità che Dio ha compassione. Ed è sempre l’essere umano che cerca la felicità. A volte non certo per il giusto cammino, non sempre nel modo più corretto. È la domanda del dottore della legge: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Vita eterna è forse già un termine tecnico, un termine specifico del linguaggio cristiano o religioso. Cosa devo fare per avere una vita felice, felice di una felicità non minacciata dal passare del tempo, non guastata da pericoli che incombono sempre sulla vita? Vita eterna sarà anche conoscere Dio e colui che Dio ha mandato dirà Giovanni nel suo Vangelo (Gv 17,3). Torniamo dunque al tema con cui ho aperto questo scritto. 

Certo è che se una distanza ci separa dal passaggio di Gesù sulla terra e la possibilità di conoscerlo pare – a certuni – una possibilità rarefatta, qualcosa tuttavia resta chiaro a proposito di coloro che si dicono discepoli di Cristo Gesù. Dai suoi discepoli ci si attende che vivano nell’amore. Si intuisce che questa ricerca di felicità sia strettamente legata al volersi bene. Lo si dice fin dai tempi di Mosé ed è scritto in forma di Legge, di comandamento. E non è assurdo che questa legge chieda di amare Dio invisibile con tutto il proprio essere, se amare significa anche fare e dare compimento a quanto da Dio si ascolta. 

La risposta è corretta, la strada è buona. Se vuoi la vita eterna, se vuoi essere felice, si tratta di amare. Amare Dio e amare il prossimo. La ricerca si fa così più intrigante e da questa risposta benedetta da Gesù stesso, nasce una nuova domanda: «E chi è il mio prossimo?». Come se, puntato un compasso immaginario, chiedessimo qual’è il nostro raggio d’azione, entro quale spazio devo considerare che l’altro è il mio prossimo? Se è chiaro che dobbiamo amare, fino a che punto devo spingermi? Amare se stessi anzitutto (e ancora, cosa significa?), per amare poi quelli della propria casa, della propria famiglia, e poi – come per allargare il cerchio – quelli del proprio paese, della propria nazione, quelli che confessano la stessa fede… ma solo i cattolici? O anche le altre confessioni cristiane? O anche le altre religioni monoteiste?… insomma quanto ampio dev’essere il nostro sguardo, il nostro cuore, il nostro raggio d’azione?

Da queste domande non ne usciremo sani e salvi, anzi potremmo finire per perderci su altre strade, su sentieri pericolosissimi. Ed è a questo punto che Gesù racconta una delle sue parabole, forse una di quelle ancora abbastanza note. È forse importante che ascoltandola ancora una volta, proviamo a liberarci di quella tentazione subdola di giudicare subito quelle persone che pur avendo visto l’uomo caduto nelle mani dei briganti e lasciato a terra mezzo morto, sono passati oltre. Sono passati oltre non perché più cattivi. Lasciamo aperta per loro la possibilità che probabilmente un dovere o un’altra legge (ancor più se religiosa) li muoveva anche nel loro passare oltre. In mezzo ad un mare di precetti poi… e ancora poi si tratta di interpretare. 

Noterei – en passant – che non c’è nemmeno da interrogarsi sui briganti. Nessuna questione sul perché di quel comportamento violento. Anche loro cercavano felicità? Forse è proprio così e la cercano nel rapinare le ricchezze altrui, nell’eliminare un eventuale avversario. Il fatto è che di quell’uomo lasciato a terra mezzo morto, mezza vita se la sono presa proprio loro. Nemmeno serve tirare in ballo Dio che nulla avrebbe fatto per impedire quell’aggressione. A nulla serve giudicare coloro che non si sono fermati.

Perché allora questa parabola? Perché raccontarla in quel modo? La storia prosegue e noi ne siamo così spesso spettatori impotenti. Ma qualcosa può cambiare il corso degli eventi ed è proprio quanto la parabola lascia intendere. Tutti vedono ma solo uno prova compassione. Mi pare assai prezioso questo tempo che è il nostro dove si insegna a dare il nome ai sentimenti che proviamo davanti a quanto accade. Ci stiamo creando un vocabolario pieno di sfumature quanto al nostro sentire in ogni situazione. Non saprei dire se in questo vocabolario il termine «compassione» compare. Non saprei neppure dire se si tratta solo di un semplice sentimento, perché in realtà pare un bel motore che muove a fare cose che non avremmo fatto. Un movimento generatore che spinge la vita a mostrarsi nel suo lato migliore, in favore dell’altro e facendo provare la gioia di aver fatto il bene. Eccola dunque la compassione. Eccola apparire nel racconto. Eccola apparire dentro le viscere del samaritano. Eccola versata sulle ferite, eccola nei due denari dati per le spese supplementari ed è  così che il denaro acquista un valore nuovo. 

Potremmo giocare con le parole e con le immagini: non si tratta appunto di disquisire su quanto ampio dev’essere il campo d’azione dell’amore, fino a dove deve spingersi la nostra amorevole inclusione. Si tratta piuttosto di chiedersi se dentro di noi, nel nostro profondo nasce ancora la compassione davanti a ciò che vediamo, sollecitati come siamo da immagini eccessive di violenza e di male. Forse il nostro cervello cerca di difenderci, forse ci stiamo abituando anche alla sofferenza? In ogni caso la compassione non è frutto di ragionamenti ma nasce dalle viscere, dal profondo. Forse è pure così che oggi possiamo conoscere Gesù come l’eterno samaritano che sempre avrà compassione anche di questa crescente mancanza di compassione. Non chiediamoci dunque «Chi è il mio prossimo» ma lasciamo che il Vangelo stesso chieda a noi quanto siamo capaci di farci prossimi per compassione. In fondo, questo Vangelo è un seme piantato nella nostra terra perché porti frutto; un seme piantato nel grembo dell’umanità perché possa incarnarsi. 

Dal Vangelo secondo Luca
(10, 25-37)

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

Signore Gesù,
donaci i tuoi stessi sentimenti,
un cuore capace di ascolto,
occhi che sanno vedere
e viscere in cui si genera compassione
e restituire vita.

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